Le parole che contano

a cura di Dott. Maurizio
Borri

Per misurare e analizzare l’impatto della pandemia sulla copertura mediale della tecnoscienza (prevalenza di termini tecnici e scientifici), il gruppo di ricerca PaSTIS, coordinato dal sociologo dell’Università di Padova Federico Neresini, ha realizzato uno studio sull’attenzione dedicata alla presenza di t ermini t ecnici e s cientifici nei principali quotidiani italiani durante il 2020 mediante il progetto TIPS (Technoscientific Issues in the Public Sphere). Tramite una piattaforma web appositamente costruita vengono raccolti e sottoposti ad analisi automatica i testi degli articoli pubblicati dagli otto principali quotidiani italiani, dove emerge che gli effetti della pandemia sulla comunicazione pubblica sono evidenti anche sotto il profilo qualitativo.

Prima del 2020 l’esplorazione spaziale, le tematiche ambientali, la ricerca biomedica e le neuroscienze costituivano alcune delle principali tematiche di lungo periodo con cui si alimentava la copertura mediale.

Nel 2020 molte di queste tematiche spariscono dalle prime posizioni, scalzate da altre quali test, vaccino e coronavirus; si osserva inoltre un riposizionamento di alcune parole che con la pandemia sono state investite di significati e interessi diversi. Nell’insieme, la triade “test-virus-vaccino” la fa da padrona in tutta la comunicazione mediatica. Significa che sia gli argomenti che le parole chiave legate al coronavirus hanno profondamente indirizzato la comunicazione giornalistica del 2020. Nel quadriennio precedente i temi maggiormente richiamati sono quelli legati all’ambito dell’oncologia e della salute, delle neuroscienze, dell’intelligenza artificiale, della ricerca universitaria e degli animali. Mentre il 2020 mostra un panorama profondamente diverso, poiché le parole della pandemia hanno mutato profondamente le loro caratteristiche preminenti, appropriandosi anche di parole già presenti, ma ridisegnandone il significato. Molte delle istituzioni legate alla pandemia appaiono sui media non solo quando si parla di Covid all’interno di articoli dal prevalente contenuto scientifico, ma anche nel contesto di articoli maggiormente legati ad altri domini tematici, come per esempio quello della politica, della cronaca o dell’economia.

Un impatto senza precedenti

Nessun tema riguardante la scienza e la tecnologia ha avuto un effetto così dirompente sul dibattito pubblico come la pandemia di Covid-19. La pandemia ha spinto i maggiori quotidiani italiani a dare maggiore spazio all’effettualità virale, attraverso alcune ‘parole chiave’ legate al coronavirus. E sono proprio queste parole ad effetto ‘contagioso’ ad aver dominato gli articoli che fanno riferimento alla scienza del 2020, cioè si intravede anche un effetto di riposizionamento di alcune parole che con la pandemia sono state in una certa misura investite di “significati” e “interessi diversi”.

Tutta la psicologia della comunicazione conosce molto bene i processi legati al significato che accompagna le parole e gli effetti consequenziali che tali significati scatenano, soprattutto quando queste parole sono ossessivamente e incessantemente ripetute da mattino a sera attraverso qualsiasi mezzo mediatico. Sono processi fisiologici di stimolorisposta a conseguenza adattiva evidenziati da tutta la ricerca neurofisiologica fatta in passato in riferimento all’elaborazione mentale quando stimolata da una ripetizione ossessiva di parole legate ad un concetto il cui fine è creare una specifica immagine mentale al fine di provocare un determinato stato d’animo.

Parliamo di associazione, dove a ‘quella’ parola si crea uno stato emotivo prolungato di paura, disagio e stress che può alterare la normale risposta fisiologica. Al pari di come una immagine di un campo di concentramento inneschi – in modo automatico – tutta una serie di associazioni legate alla disumanizzazione.

Pragmatica della comunicazione umana

Nel libro “Pragmatica della comunicazione umana” del 1967, (trad. it. Editrice Astrolabio, Ubaldini Editore, Roma 1971), P. Watzlawick, J. Helmick Beavin e Don D. Jackson, tre ricercatori del Mental Research Istitute di Palo Alto (California), presentarono uno studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi inerente il comportamento interattivo umano. Viene evidenziato il fatto che i rapporti interattivi tra gli individui sono determinati essenzialmente dal tipo di comunicazione che essi adoperano tra loro. Attraverso l’analisi e lo studio della comunicazione è possibile individuare delle ‘patologie’ della comunicazione e dimostrare che ‘sono esse’ a produrre nell’uomo un comportamento patologico chiamato ‘follia’.

Questo accade in quanto la comunicazione è una ‘condizio sine qua non’ della vita umana e dell’ordinamento sociale. Ognuno di noi sin dai primissimi anni di vita è coinvolto in un complesso processo di acquisizioni di regole dettate per lo più dal ceppo culturale e fideistico del gruppo di adulti di riferimento, cioè quel piccolo (o grande) nucleo sociale in cui ogni bambino nasce e si sviluppa.

Ogni essere umano nasce con una propria identità dettata dallo specifico progetto di natura ma grazie alla grande capacità di adattamento per la sopravvivenza che l’uomo possiede, molto spesso (per non dire sempre) accade che l’educazione socioculturale si sovrapponga a questa identità, per cui ogni uomo è più il frutto dell’ambiente in cui nasce e si sviluppa piuttosto che di se stesso. Dagli studi sulla comunicazione ci è dato di sapere che la notizia di un qualsiasi messaggio trasmette informazioni, che sono il ‘contenuto’ del messaggio indipendentemente dal fatto se vero o falso. Sappiamo inoltre che un modo inesatto di parlare o scrivere – usato in modo consapevole per una forma di convenienza – possa, alla fine, confondere il pensiero, soprattutto quando chi scrive o parla perde la consapevolezza della sua inesattezza o contraddittorietà. Il mondo in cui viviamo è ben lontano da essere un mondo ‘logico’ e anche la ricerca fatta dall’Unità di Ricerca Pa.S.T.I.S. del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Sociale dell’Università degli Studi di Padova ci dice quanto siamo tutti esposti e condizionati da una comunicazione mediatica che produce un comportamento “paradossale”. Un paradosso è una contraddizione logica che deriva dalle deduzioni “coerenti” di premesse corrette.

Una comunicazione paradossale avrà l’effetto di legare in doppio in quanto la “radice” del conflitto, cioè se salvare la capra o il cavolo, è sempre rintracciabile ad una contraddizione tra le “alternative” che sono state offerte o imposte. In natura la contraddizione non esiste, una cosa o individuazione o situazione non può – contemporaneamente – essere in un modo e nel modo opposto, quindi si deduce che solo l’uomo possiede la capacità di “vivere” l’esperienza del paradosso.

L’incredibile capacità di adattamento all’ambiente (informatico) è sostenuto soltanto dal “significato” che ognuno di noi dà del mondo in cui vive, nel senso che chi ha un “perché” per vivere, quasi sempre sopporterà “come” vivere. Dal livello di coscienza che ognuno di noi possiede nasce la capacità di essere auto-consapevole della libertà di conoscenza in relazione all’ambiente. Ogni uomo fa vera conoscenza solo attraverso l’esperienza, cioè confronta ciò che conosce con la sua esistenza e reagisce a quanto conosciuto in base a ‘quanto’ e ‘come’ capisce.

Quindi il “dilemma” o “paradosso” dell’esistenza umana è quello che insorge dalla capacità dell’uomo di sperimentare se stesso tanto come oggetto quanto come soggetto di tutto ciò che conosce. Spesso ci dimentichiamo che siamo enti energetici rice-trasmittenti che vivono all’interno di un flusso costante di informazioni.

L’uomo è rimasto indietro, non perché sia inferiore come capacità d’azione, ma solo perché non conosce il proprio potenziale valore di intelligenza e quindi si usa in parte e non per intero. Quando qualsiasi parola o comunicazione – per il processo associativo insito nei processi mentali – provoca una reazione emotiva di paura, dubbio o colpa, forse è meglio verificare la sua finalità, in quanto abbiamo visto come gran parte della globalità dello spazio delle informazioni che circolano in maniera spasmodica e incontrollata hanno cambiato le nostre menti. Come abbiamo visto in precedenza tutto il contenuto di qualsiasi comunicazione può essere manipolato, quindi non necessariamente possiede una corrispondente funzione umana.

Come esempio prendiamo il “gene” che di per sé è una struttura biologica che nel tempo è anche diventato un “simbolo” investito di significato culturale indipendente dalle sue proprietà biologiche. Questo significato indipendente è una informazione aggiunta, elaborata senza alcun riferimento ad un concreto semplice della natura, cioè è una immagine fine a se stessa. Questa informazione fine a se stessa che non deriva dalla natura viene definita “meme”. L’informazione memica non consente la reversibilità di coincidenza con il reale biologico vitale. I memi sono imitazione o idee che si diffondono velocemente da un cervello all’altro. Sono paragonabili a “virus” che si alloggiano nell’apparato cerebrotonico con priorità di accesso alla coscienza e volontà.

Questa informazione è l’unità base per la diffusione di idee, cultura, stereotipi. La memetica è un filone di studio che vede coinvolti personaggi delun calibro di R. Dawkins, biologo, utore del libro “The Selfish Gene, New Edition Oxford University Press, 1989, trad. it. “Il gene egoista”, Mondadori, MI, 1995. R. Brodie, (inventore del programma Microsoft Word), autore del libro ” Virus of the mind”, Integral Press, 1996, trad. it. “Virus della mente”, Ecomind Publication, 2000 e S. Blackmore, “The Meme Machine”, Oxford Univ. Press 2000. Abbiamo avuto tutti la netta evidenza di quanto sia più la tecnologia a tenere unito l’uomo piuttosto che i valori umanistici acquisiti dal passato. Significa che siamo più tecnologici che umani? No. Semplicemente non ci siamo aggiornati rispetto alla tecnologia informatica imposta dal processo virtuale. L’uomo ha da tempo perso la sua identità costituente. Nasce con un progetto di natura, quindi con una identità ben precisa, sempre finalizzata alla realizzazione esistenziale qualitativa, cioè una vita felice, realizzata, senza malattie o disagio mentale. Purtroppo bisogna prendere atto che la maggioranza di individui, soprattutto i giovani, si sperimenta in costante scacco esistenziale. La responsabilità di ogni individuo che vuole di più da se stesso è verificare la funzionalità della propria coscienza, perché è tutto da dimostrare che abbiamo una coscienza funzionale. Il senso di paura, colpa o disagio è già un campanello di allarme, in quanto indica una coscienza divelta dalla propria identità di natura, mentre avere una coscienza in identità di se stessi rappresenta il modo più funzionale per l’autorealizzazione. Questo è il continuo processo della conoscenza finalizzato a rendere funzionale il proprio stile di vita, conforme alla identità del proprio progetto di natura.

Padova, 31 marzo 2021, primo rapporto

del Progetto Technoscientific Issues in the

Public Sphere (TIPS) condotto dall’Unità di

Ricerca PaSTIS del Dipartimento di Filosofia,

Sociologia, Pedagogia e Psicologia Sociale

dell’Università degli Studi di Padova.

www.pastis-research.eu – www.tipsproject.eu